Sono le 11 del mattino del 25 gennaio, attraverso il corridoio verso la stanza 6, che da circa un mese è occupata da Clara. Sono davanti all’uscio, la vedo stesa nel letto nella penombra, la tapparella abbassata e sui suoi occhiali il riflesso delle luci della televisione. Si gira di scatto verso di me, capisco che mi stava aspettando. I suoi grandi occhi castani sembrano fari catalizzatori, ti invitano ad avvicinarti.
Giunta in piedi davanti al suo letto mi dice, con un sottilissimo filo di voce, di prendere una busta dal cassetto del comodino. Dal suo interno estraggo alcune fotografie che la ritraggono: è lei, una ventina di anni fa, alta, esile, i capelli lunghi mori raccolti in una coda di cavallo. Sono foto dei suoi viaggi: è in costume sorridente sul lungo mare della Sardegna, in un’altra è in posa nei giardini di Valsanzibio, poi una foto mentre si bacia con il suo attuale compagno. E’ orgogliosa di mostrarmele e io mi sento piena di gratitudine per questo piccolo squarcio di vita privata che ha desiderato condividere con me. Questi minuti dedicati ai ricordi durano poco, perché poi Clara torna ad immergersi nei suoi pensieri, lo sguardo perso rivolto al paesaggio fuori dalla finestra e di nuovo il silenzio.
Ci sono avvenimenti nella vita che rappresentano esperienze di “confine”: il pensionamento, i compleanni, una separazione, la diagnosi di una malattia, eccetera; esperienze che, come scrive Yalom, “offrono uno spiraglio verso livelli esistenziali più profondi”. Poi ci sono luoghi di confine: questi sono gli Hospice, dove ci si trova di fronte alla propria morte, che è l’esperienza di confine più potente.

Non sempre il paziente che giunge nei servizi dedicati alle cure palliative è consapevole della sua condizione. Chi lo è, vive un profondo stato di sofferenza psicologica, che in letteratura viene definito come distress esistenziale: paura che può diventare terrore (del sintomo specifico, del dolore, “di morire”), disperazione, depressione, angoscia, apatia, assenza di speranza e di significato. Non soltanto: chi si avvicina alla finitudine vive uno stato di solitudine perché, in fondo, l’evento morte riguarda lui e la sua unica vita, nessun’ altro in quel momento. Si cerca di attraversare la vita in compagnia di qualcuno, ma di fronte alla morte, la propria morte, siamo da soli.
Ciò che è molto comune nei pazienti in fase terminale è la grande difficoltà a esprimere tutti questi vissuti e, più in generale, quello che stanno sperimentando.
E’ proprio per questo, allora, che diventa centrale nelle cure palliative garantire ai pazienti uno spazio di ascolto dove poter esplorare, comprendere, dare un nome, legittimare, tutti gli stati d’animo da cui vengono attraversati, al fine di garantire, anche nell’ultimo stadio evolutivo della vita, una maggior consapevolezza di sé, il potere di autodeterminarsi e il rispetto della propria dignità.

Le tre condizioni rogersiane di empatia, autenticità e accettazione incondizionata, rappresentano i presupposti su cui costruire una relazione terapeutica con il paziente che gli offra la possibilità di esprimersi liberamente, in un clima di fiducia e assenza di giudizio, e dove possa contattare i personali bisogni e desideri, sia quelli emergenti sia quelli reconditi.
Empatia è sostare con il paziente, in quella stanza, con le sue fatiche, con i suoi impedimenti, comprendendo anche il dolore fisico. E’ centrarsi su di lui, anche se questo comporta colloquiare nella penombra e sedersi nella posizione che più ci permette di avere un contatto visivo, è rispettare i suoi tempi, il carattere dell’eloquio, che può essere lento e affaticato, i silenzi e le pause. E’ permettere al paziente di cambiare argomento, senza aver tratto necessariamente delle conclusioni.
L’autenticità, per il paziente in Hospice, ha un valore inestimabile: se la relazione è
autentica, allora è reale, se è reale, allora è vitale. Essere genuini, trasparenti, se stessi da parte dell’operatore aiuta il paziente a fare altrettanto, liberandolo dalla percezione di essere solo un “malato” per tornare finalmente a vedersi come persona, in tutta la propria unicità.
L’accettazione incondizionata è credere nel valore di quella vita, di quel singolo individuo, nel qui ed ora. E’ credere nella possibilità che, anche in questo stadio finale della vita, quel paziente possa raggiungere un maggiore livello di maturità, di autorealizzazione, di attribuzione di senso e significato. Quando questo processo è messo in moto, non di rado si assiste a degli agiti significativi: per esempio, richieste di lasciare uno scritto, di prendere contatto con qualcuno in particolare, di rivedere una persona cui si è stati legati o di esaudire un piccolo/grande desiderio.
La potenza di un approccio umanistico, nell’espressione delle tre condizioni rogersiane, risiede nella possibilità di essere messo in campo da tutti i professionisti della cura, quindi non solo dagli psicologi ma anche dai medici, dagli infermieri, dagli Oss, dagli educatori e dai fisioterapisti.
In Hospice continuare a vedere la persona, e non solo il paziente malato della stanza numero 6, significa credere nel valore della sua esistenza. Un tale incontro con l’altro restituisce quell’autostima e quella dignità che il dolore, l’astenia, le flebo, i cerotti sul corpo, inevitabilmente strappano via ed è solo percependo un tale calore e una tale accoglienza che l’altro si rende disponibile ad auto-rivelarsi.
Se un tale approccio diventasse la cornice entro cui agire la multidisciplinarietà, allora si potrebbe ben dire di essere stati in grado di offrire al paziente quel mantello, il pallium appunto, che lo tenga al caldo in questa sua ultima esperienza di confine.
Per saperne di più
Exitu Emmanuel, Di cosa è fatta la speranza, Romanzo Bompiani, 2023.
Rogers Carl R. e Kinget Marian, Psicoterapia e relazioni umane, Bollati Boringhieri, 1974.
Yalom Irvin D., Il senso della vita, Neri Pozza Editore, 2016.
Yalom Irvin D., Fissando il sole, Neri Pozza Editore, 2017.
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